domenica 22 maggio 2011

"A maistra Giulia"

PERSONAGGI MESSIGNADESI   ”A Maistra Giulia"

Quando i bambini andavano “a maistra”
di Filippo Tucci

Chiunque, nella bella stagione, si sia trovato a passare nella via centrale di Messignadi, avrà certamente fatto caso ad una vecchietta seduta sull’uscio di casa, proprio di fronte alla Chiesa parrocchiale, intenta a godersi il tepore del sole o a scambiare qualche parola con i passanti. Si trattava di una anziana signora ultranovantenne che, come altre in questo paese, aveva raggiunto questa veneranda età. Ma non era questa, o almeno non solo questa, la particolarità di questa donna. Nella storia delle piccole comunità ci sono delle persone che, per motivi diversi, lasciano una impronta indelebile non tanto perché hanno fatto cose eccezionali, ma solo e soltanto perché hanno vissuto una vita normale, laddove la “normalità” consiste in dedizione verso il prossimo, spesso aldilà delle proprie possibilità, in sofferenza e dolore sopportati con dignità, nell’avere sempre una parola consolatoria o pacificatrice.“A maistra Giulia” ha fatto parte di questa schiera di donne (associo, nel mio personale ricordo anche a “maistra Vincenzina Panuccio” e la signorina Carmelina Lando) che hanno fatto da balia ed allevato generazioni di piccoli messignadesi. Si deve a loro se, negli anni successivi alla guerra, tante mamme avevano la possibilità di andare serene al lavoro, certe che i loro figli erano in buone mani, curati da occhi vigili, attenti ed amorosi. Certo nessuna di queste “maistre” era particolar mente scolarizzata, ma non difettava loro né il buonsenso, né la disponibilità all’accoglienza. La casa popolare, dove la “maistra Giulia” allora abitava e ci accoglieva, era composta da una ampia stanza, da una piccola cucina e da un bagnetto, posto nel vano scala che portava in soffitta. Dentro quella stanza c'era di tutto: il letto matrimoniale, una brandina per i suoi figli, una macchina da cucire Singer, un tavolo rotondo con sopra appoggiati ninnoli vari e gli attrezzi di lavoro ( il metro, una squadretta, il gesso, le “spagnolette”, aghi, spilli, ecc.). In un angolo, lasciato appositamente sgombro, lo spazio per i piccoli e le loro sedioline. Nella vicina cucina il marito, mastro Paolo “u scarparu”, aveva piazzato la sua ''banchetta” da calzolaio, con sopra martelli, colla, “trincetti”, la “strappa”, lesine e strane forme di piedi in ferro dentro cui metteva le scarpe da riparare. Doveva essere bravo perché tutti portavano le scarpe da “mpettari” e anche quando (raramente) si compravano le scarpe nuove le portavano da lui per farsi mettere i “ttacci” (chiodi a testa larga, per non consumare le suole). Era un brav’uomo, mastro Paolo, anche se l’abitudine dell’epoca era quella di non considerare molto le donne, per cui quella santa donna della maistra Giulia doveva sopportare qualche sfuriata di troppo, soprattutto quando a sera, rientrando dall’abituale visita alla cantina di “Ffonziella”, gli uomini, un po’ alticci, cercavano di “armari sciarra”. A maistra allora usciva fuori  e, così come facevano le altre mogli, rabboniva il marito con buone parole e lo riconduceva a casa. Comunque noi bambini andavamo con gioia, perché “a maistra” non ci obbligava a dire sempre le giaculatorie (come faceva la “Panuccia), ci lasciava giocare e non ci dava punizioni. Eravamo, a secondo i giorni, sette o otto bambini più “Turuzzu”e “Mela”, i suoi figli più piccoli. A “maistra” ci faceva disegnare con lapis colorati, però dovevamo stare fermi e buoni quando arrivava qualche sua cliente. All’ora di pranzo tiravamo fuori dai cestini quanto le nostre mamme ci avevano preparato e, generalmente, si metteva tutto insieme per poi dividere fra tutti. Quasi sempre a quell’ora compariva la vicina di casa, donna Grazia o suo marito Mastro Peppe il sacrestano, che “a maistra” faceva partecipare alla divisione del cibo, raccomandandoci di non dire niente ai nostri genitori. Poi a sei anni, mi mandarono alla scuola elementare, ma il rapporto con la “maistra” Giulia è continuato e si è consolidato nel tempo (anche se insisteva a chiamarmi "professore", condividendoci reciprocamente le gioie e i dolori che la vita riserva ad ognuno di noi. I suoi figli maschi emigrarono e trovarono in Paesi lontani la fortuna, che la nostra terra concede a pochi. Il suo desiderio era di avere accanto la figlia “Mela”, che si sposò in paese e le diede due nipotini. Ma il destino è sempre in agguato e la dolce e sensibile “Mela”, colpita dalla  immatura morte di Peppe suo marito, non sopravvisse a tale perdita. “A maistra”, si rivelò, in quella funesta occasione, una roccia e, seppur tra tante lacrime e sofferenze, si comportò con grande dignità per poter essere una guida materna ai piccoli nipotini, rimasti orfani dei genitori. Circa un mese fa, l’ultima volta che parlai con lei, la trovai serena come sempre e pronta a fare la "volontà du Signuri" anche se avrebbe volentieri donato la propria vita per salvare quella di uno dei tanti giovani che muoiono purtroppo prematuramente. Lei al dolore si era ormai rassegnata, ma stava male al pensiero delle sofferenze altrui. Allora diveniva così dolce e materna, da farti sentire ancora un bambino bisognoso di protezione, e la sua mano ti regalava una carezza, mentre i suoi occhi si inumidivano. Ecco chi era “a maistra Giulia”. Una donna di immensa umanità, incapace di fare del male. La sua morte non ha fatto notizia perché esiste soltanto una cronaca nera e non c’è spazio in nessun giornale per gli esempi positivi. Ecco perché, cara Maistra Giulia, ho voluto ricordarti, con queste povere parole, che poco rendono le tue grandi qualità. Certo ti ricorderanno le persone alle quali tu hai voluto bene, ma sarebbe bello se anche gli altri che poco ti hanno conosciuto, imparassero qualcosa dalla tua lezione di vita.

FILIPPO TUCCI