sabato 4 giugno 2011

Scene da un matrimonio


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Messignadesi on the road...


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Bambini nel tempo


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Bambini...nel tempo


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Santi di Messignadi


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Messignadi tra fede e folklore

Messignadi tra fede e folklore negli anni sessanta
di Filippo Tucci

Ce ne sono di santi al mio paese per cui si fanno feste, onori e spese! Hanno tutti un lumino e ognuno ha un giorno di gloria, con il popolino intorno”. Così il poeta Vincenzo Cardarelli .Si può convenire che la descrizione calzava a pennello anche per Messignadi. C’erano santi e feste per ogni occasione ed, ovviamente, ogni santo aveva i suoi devoti, ma anche una sua peculiarità. Le statue di San Giuseppe, di Santa Teresa, di Santa Filomena, della Madonna del Carmine, dell’Immacolata, di San Vincenzo Ferreri, di Sant’Antonio da Padova, di San Paolo, di San Michele Arcangelo, di San Nicola riempivano le nicchie (a cona) poste all’interno della chiesa parrocchiale. Occorre, però dire che i festeggiamenti non erano tutti uguali: per alcuni santi solo una messa cantata nel giorno della ricorrenza, per altri una “festa di chiesa” (con annessa processione) ed, infine c'era festa grande (con banda, fiera, illuminazione, palco, “spari” , panegirico, ecc.) per l’Immacolata, nel mese di maggio, e per San Vincenzo, nel mese di giugno. Del patrono San Nicola, la cui statua troneggiava sull’altare maggiore della chiesa, non si hanno notizie di feste, così come di San Michele. Santa Filomena invece venne pensionata e la statua era finita nello scantinato della bottega di “custureri” di mastro Vincenzo Laganà. Di Sant’Antonio si ricordano i pagnocchedi che le donne, devote del santo, distribuivano a tutti dopo la rituale benedizione, mentre la festa di San Paolo era il terrore dei bambini, perché arrivavano i cosiddetti sanpaulari, che tentavano di mettere al collo dei piccoli dei viscidi serpenti, al fine di esorcizzarne la paura. Poi c’erano le feste comandate. Il santo Natale, con il suo intramontabile fascino, veniva celebrato con una novena mattutina all’alba, annunciata dal suono delle zampogne (i ciaramedi). A Pasqua, invece, c’era la sguta (gloria calandu e sguta mangiando) e carici che sostituivano il suono delle campane. Il venerdì santo, in chiesa si evocava la Passione del Signore e al momento del rito delle tenebre tutti si mettevano a battere i piedi per terra e con i pugni picchiavano sulle panche o sulle porte della chiesa in modo così violento da provocare seri danni. Non si contavano, alla fine, le sedie rotte e gli infissi fuori uso, che il buon parroco doveva far riparare. Il giorno del Corpus Domini, il paese si “vestiva a festa” per gli altarini : drappi, coperte damaschinate in raso luccicante, ricche e colorate tovaglie pendevano dai balconi e dalle finestre delle case. In ogni ”rruga veniva allestito un piccolo altare che avrebbe ospitato per qualche minuto il Santissimo. Era una gara a chi faceva l’addobbo più bello e più ricco e, al passaggio della processione, era un piovere di fiori e di petali di rose, al punto che le strade del paese divenivano un tappeto fiorito. Oltre ai santi di Messignadi, c’erano da onorare anche quelli dei paesi vicini: l’Annunziata a Oppido, la Madonna delle Grazie a Tresilico, la Madonna del Carmine e del Rosario a Varapodio, la Pastorella a Piminoro, la Madonna di Lourdes a Molochio, ecc. per cui almeno una veloce affacciata era d’obbligo. Capitolo a parte era quello dei pellegrinaggi, dove c’era una grande e convinta partecipazione popolare. La stagione, per così dire, veniva aperta il 3 maggio con il Crocefisso di Terranova, il 15 agosto c’era la Madonna dei Poveri a Seminara e da qui in viaggio verso Acquaro, dove si arrivava a tarda sera, per assistere alla calata ”chi trocciola” di San Rocco. Infine, dulcis in fundo, il top, quello a Polsi il 2 settembre, per la Madonna della Montagna. Il pellegrinaggio conservava ancora integro lo spirito originario medievale per cui diveniva un rito di espiazione e di purificazione spirituale. Le mete erano raggiunte rigorosamente a piedi e ciò comportava non solo fatica fisica, ma anche il dover far fronte a tanti imprevisti, connessi alla variabilità del clima o alla necessità di dover guadare qualche torrente in piena. La grande fede che li faceva mettere in viaggio, insieme al fatto che dovevano assolvere a un “gutu”per una grazia ricevuta o da ricevere, faceva superare ai pellegrini qualsiasi  tipo di difficoltà. I viaggi erano fatti in compagnia e le carovane erano composte da nuclei familiari, amici e compari. Si suonava, si ballava, si cantava e si pregava. In queste occasioni, anche a causa della  forzata promiscuità, inevitabilmente si allentavano i rigidi controlli, che vigevano in paese e allora le giovani ragazze ed i giovani maschi potevano scambiarsi qualche parola e stabilire un rapporto diretto. Quanti matrimoni si “ggiustavano” (ma a volte si”scumbenavano”) durante il percorso! Così pure si chiudevano trattative di affari di vario genere e si creavano nuovi comparati (“sangianni”) e spesso ci si pacificava tra vecchi nemici. In ultima analisi, il pellegrinaggio, aldilà degli aspetti strettamente religiosi, diveniva un elemento importante anche sotto il profilo dei rapporti sociali. Poi, agli inizi di settembre, si ricominciavano i lavori della terra e si pensava alla vendemmia imminente e alla raccolta dei funghi , che le prime piogge avrebbero fatto emergere dalla grassa e feconda terra d’Aspromonte…

FILIPPO TUCCI