lunedì 30 maggio 2011

L'occupazione del bosco Farone

PAGINE DI STORIA MESSIGNADESE / 1
L’occupazione del bosco Farone  di Filippo Tucci


Agli inizi del 1950 la Piana di Gioia Tauro fu teatro di sommovimenti popolari che avevano come obiettivo l’occupazione dei fondi agricoli incolti, appartenenti a proprietari terrieri della zona. Ispiratori e organizzatori erano i partiti del fronte popolare di sinistra, spalleggiati dal sindacato CGIL. Il movimento, sviluppatosi nel meridione d’Italia, corrispondeva più a esigenze contingenti di strategia e lotta politica, che non ad una reale necessità dei ceti popolari. In Calabria, ed in particolare nell’area della Piana di Gioia Tauro, mancava un ceto operaio e proletario che facesse da spinta al movimento e si identificasse nella ideologia rivoluzionaria. Infatti la maggioranza della popolazione era composta da piccoli proprietari - contadini e da modesti artigiani, le cui ambizioni non erano certo di essere” livellati” all’interno di un sistema di tipo comunista, ma di ampliare le loro “proprietà”. Il contesto economico di quegli anni, successivi alla seconda guerra mondiale, era particolarmente difficile e precario, ma non assimilabile ad altre situazioni caratterizzate da sfruttamento da parte dì agrari latifondisti. Messignadi, nella circostanza, si mobilitò, capeggiata dal concittadino Francesco Zimbè, dirigente zonale  della CGIL e del Partito Socialista, che nel paese aveva costituito una sezione politico-sindacale, forte di oltre150 iscritti. Per cui, decisa a livello di vertice l’azione, si pianificò localmente l’operazione, individuando nel bosco Farone  il fondo da occupare. Questo vasto terreno, attiguo alle proprietà coltivate dai Messignadesi, era posto sul pianoro sopra il fiume Serra (Jona), lungo la mulattiera che da Messignadi portava a Molochio. Non fu difficile per Zimbè, convincere i paesani, allettati dalla prospettiva di una facile conquista. Infatti in quel mattino del 5 marzo, una folla eterogenea composta da oltre duecento persone, si ritrovò nella piazza della Chiesa Vecchia e e si mise in marcia verso Farone, con la coreografia che la circostanza imponeva: sventolio di bandiere rosse, qualche pugno alzato, schiamazzi, ecc. Stranamente mancavano, o erano pochissimi, i braccianti, i “zappaturi”, i “putaturi”, i raccoglitori di olive (i “jornatari”) che avrebbero dovuto essere il perno e la spina dorsale del movimento. Mancava, insomma il proletariato. I “cafoni”(per dirla con Silone) sapevano che nulla avrebbe cambiato la loro condizione e realisticamente quel giorno andarono a lavorare per poter sfamare  la loro famiglia. Quelli che, invece, parteciparono erano in maggioranza piccoli proprietari agricoli, che coltivavano direttamente la loro terra e qualche artigiano speranzoso in un improbabile cambio di status. Immancabili gli “strascinafacendi” e gli approfittatori. Insomma una variegata armata Brancaleone, dove ciascuno pensava di trarre qualche vantaggio, magari a spese di qualcun'altro. In quella folla, l’unico idealista, che credeva veramente in quello che faceva, era Francesco Zimbè, il quale per tre giorni continuò a guidare ed arringare i “rivoluzionari”, dovendo spesso intervenire a sedare le insorgenti liti sulla ipotetica spartizione del fondo. Comunque al terzo giorno intervenne la forza pubblica che fece sgomberare tutti ed a Messignadi, come negli altri paesi della Piana, si ritornò alla normalità. Grande fu la delusione da parte dei partecipanti, tant’è che i Partiti della sinistra e lo stesso Zimbè persero credibilità e consensi elettorali, scomparendo definitivamente dalla scena politica locale.


PERSONAGGI MESSIGNADESI /1

FRANCESCO ZIMBE’ di Filippo Tucci

Dopo la caduta del fascismo, Francesco Zimbè aprì a Messignadi una sezione del PSI e della CGIL, consistente in una modesta scrivania posta nello stesso  locale, dove suo genero, mastro Gesu, svolgeva il lavoro di sarto. Zimbè era un convinto socialista, fautore del fronte popolare della sinistra, anti-democristiano viscerale e anche un tantino “mangiapreti”, come allora era abbastanza di moda in quell’area politica. Aveva, però, una particolare devozione per San Paolo del quale, in qualche occasione, aveva organizzato pure la festa. L’idillio con San Paolo si ruppe quando  gli nacque la terza figlia femmina, anziché il tanto atteso figlio maschio. Considerò il fatto come uno sgarbo personale da parte del suo Santo Patrono, la cui statuetta, che troneggiava su un mobile di casa, volò dalla finestra. Zimbè era persona dal carattere deciso e di forte tempra, che non arretrava in nessuna circostanza. Si narrava come una volta si fosse scontrato, nei pressi di Palmi , con un importante “capobastone” di quel luogo, il quale fu talmente ammirato dal coraggio dimostrato da volerlo per amico, decretandone così il rispetto generale. La forte passione politica, il radicato convincimento delle proprie idee socialiste e la sua capacità oratoria, gli valsero il riconoscimento dei dirigenti politici che, durantele campagne elettorali, lo invitavano per fare comizi in tutta la Provincia di Reggio. Fu nominato responsabile di zona e molto attivo nella organizzazione del PSI e della CGIL nella Piana di Gioia Tauro. Nel 1950, quando nella Calabria, vi fu la rivoltadei contadini e l’assalto alle “terre incolte”,
Francesco Zimbè fu in prima linea ed organizzò in Messignadi oltre duecento  persone che, marciarono verso le terre di Aspromonte andando ad occupare un bosco incolto chiamato “Farone”. L’occupazione durò qualche giorno, poi l’intervento dei carabinieri, mandò tutti a casa e qualcuno venne denunciato, Zimbè per primo. Di questa delusione collettiva, Francesco Zimbè pagherà le conseguenze politiche perché alle elezioni successive il partito (PSI), di cui era  responsabile raggranellerà a Messignadi solo 14 voti mentre la sezione contava 120 tesserati. Visto il carattere del soggetto la cosa non poteva finire così. Infatti qualche sera dopo le elezioni, convocati gli iscritti,  alla riunione si presentano ben più dei 14 elettori. Così nel bel mezzo della riunione, spenta la luce e preso un bastone, Zimbè comincia a dare randellate a destra e a manca, spingendo  tutti fuori. Nessuno ebbe il coraggio di protestare, ma lì finiva l’avventura politica di Francesco Zimbè, che resta comunque un raro esempio di dedizione totale e disinteressata ad una causa e ad un idea
in cui ha fermamente creduto.



1950 – L’OCCUPAZIONE DEL BOSCO FARONE


una vecchia “pasquinata” di un anonimo messignadese
(rielaborata  approssimativamente da Filippo Tucci)

Zimbedu capotesta,
Messignadi è tutta in festa.
Cù rumori e gran schiamazzi
si raduna a genti nte chjiazzi.
Messignadoti  ndavia veramente tanti
Ca lu  paisi  restau  menzu vacanti.
Arta si jiza “bandiera rossa “
e chi  pugni chjiusi vannu a la riscossa.
A banda pilusa cu Micu u nanu,
cuminciau a sonari chjianu chjianu.
Fimmini e omini, zoppi e sciancati
caminavano  tutti mbischjati.
Armati di zappi, cugnati e furcuni
Jivano u si spartunu u voscu i Faruni.
Sulu “don Nudu mancava dà matina;
non ci ndavia datu u permesso a Bellardina!
Mastru Paolu u scarparu, surridenti,
cà non tirava cchiù spacu chi denti.
Ciccu Suraci, tuttu ncanitu,
volia nù pezzo i castanitu.
Masi Caia tutto contentu
cà si pigghiava a parti du parmentu.
Ma s’incazzau Micu i Leu:
chista parti a vogghiu jeu !
Ntervinni puru Roccu u’ Canali:
cà i parti ndanno a esseri  uguali!
Dici a sua pure Jelasi:
a chi morzu ndavi u mi trasi!
Toscaneggiava Mariano u Balengo:
andate avanti che poi io vengo!
Volia a vigna Roccu Martino
u si poti fari du’ gutti i vino.
Era menza mbriaca a Ffonziella:
Voggjiu u vegnu puru ca barella!
Caminava sberto Lucilumera
u vaci u conza l’armacera
Ndavia partutu  puru Micu u Piu
ma a prima nchianata  sa fùjiu.
Urtimo chjicau Roccu u Pizzucu:
datimi chi voliti, mi basta puru nu bucu!
Jiru tri jiorna, da matina a notti
Zapparu a terra e pigghjiaru botti.
Poi  Chjcaru i carbineri nte camionetti
E, amaru  Zimbedu,  nci misuru i manetti.
Tornaru o paisi  scurnati  e cunfusi,
senza  banderi e pugni chjiusi.
Cantavanu, che da sira era ormai ora,
“Mira il tuo popolo o bella Signora”.

domenica 22 maggio 2011

"A maistra Giulia"

PERSONAGGI MESSIGNADESI   ”A Maistra Giulia"

Quando i bambini andavano “a maistra”
di Filippo Tucci

Chiunque, nella bella stagione, si sia trovato a passare nella via centrale di Messignadi, avrà certamente fatto caso ad una vecchietta seduta sull’uscio di casa, proprio di fronte alla Chiesa parrocchiale, intenta a godersi il tepore del sole o a scambiare qualche parola con i passanti. Si trattava di una anziana signora ultranovantenne che, come altre in questo paese, aveva raggiunto questa veneranda età. Ma non era questa, o almeno non solo questa, la particolarità di questa donna. Nella storia delle piccole comunità ci sono delle persone che, per motivi diversi, lasciano una impronta indelebile non tanto perché hanno fatto cose eccezionali, ma solo e soltanto perché hanno vissuto una vita normale, laddove la “normalità” consiste in dedizione verso il prossimo, spesso aldilà delle proprie possibilità, in sofferenza e dolore sopportati con dignità, nell’avere sempre una parola consolatoria o pacificatrice.“A maistra Giulia” ha fatto parte di questa schiera di donne (associo, nel mio personale ricordo anche a “maistra Vincenzina Panuccio” e la signorina Carmelina Lando) che hanno fatto da balia ed allevato generazioni di piccoli messignadesi. Si deve a loro se, negli anni successivi alla guerra, tante mamme avevano la possibilità di andare serene al lavoro, certe che i loro figli erano in buone mani, curati da occhi vigili, attenti ed amorosi. Certo nessuna di queste “maistre” era particolar mente scolarizzata, ma non difettava loro né il buonsenso, né la disponibilità all’accoglienza. La casa popolare, dove la “maistra Giulia” allora abitava e ci accoglieva, era composta da una ampia stanza, da una piccola cucina e da un bagnetto, posto nel vano scala che portava in soffitta. Dentro quella stanza c'era di tutto: il letto matrimoniale, una brandina per i suoi figli, una macchina da cucire Singer, un tavolo rotondo con sopra appoggiati ninnoli vari e gli attrezzi di lavoro ( il metro, una squadretta, il gesso, le “spagnolette”, aghi, spilli, ecc.). In un angolo, lasciato appositamente sgombro, lo spazio per i piccoli e le loro sedioline. Nella vicina cucina il marito, mastro Paolo “u scarparu”, aveva piazzato la sua ''banchetta” da calzolaio, con sopra martelli, colla, “trincetti”, la “strappa”, lesine e strane forme di piedi in ferro dentro cui metteva le scarpe da riparare. Doveva essere bravo perché tutti portavano le scarpe da “mpettari” e anche quando (raramente) si compravano le scarpe nuove le portavano da lui per farsi mettere i “ttacci” (chiodi a testa larga, per non consumare le suole). Era un brav’uomo, mastro Paolo, anche se l’abitudine dell’epoca era quella di non considerare molto le donne, per cui quella santa donna della maistra Giulia doveva sopportare qualche sfuriata di troppo, soprattutto quando a sera, rientrando dall’abituale visita alla cantina di “Ffonziella”, gli uomini, un po’ alticci, cercavano di “armari sciarra”. A maistra allora usciva fuori  e, così come facevano le altre mogli, rabboniva il marito con buone parole e lo riconduceva a casa. Comunque noi bambini andavamo con gioia, perché “a maistra” non ci obbligava a dire sempre le giaculatorie (come faceva la “Panuccia), ci lasciava giocare e non ci dava punizioni. Eravamo, a secondo i giorni, sette o otto bambini più “Turuzzu”e “Mela”, i suoi figli più piccoli. A “maistra” ci faceva disegnare con lapis colorati, però dovevamo stare fermi e buoni quando arrivava qualche sua cliente. All’ora di pranzo tiravamo fuori dai cestini quanto le nostre mamme ci avevano preparato e, generalmente, si metteva tutto insieme per poi dividere fra tutti. Quasi sempre a quell’ora compariva la vicina di casa, donna Grazia o suo marito Mastro Peppe il sacrestano, che “a maistra” faceva partecipare alla divisione del cibo, raccomandandoci di non dire niente ai nostri genitori. Poi a sei anni, mi mandarono alla scuola elementare, ma il rapporto con la “maistra” Giulia è continuato e si è consolidato nel tempo (anche se insisteva a chiamarmi "professore", condividendoci reciprocamente le gioie e i dolori che la vita riserva ad ognuno di noi. I suoi figli maschi emigrarono e trovarono in Paesi lontani la fortuna, che la nostra terra concede a pochi. Il suo desiderio era di avere accanto la figlia “Mela”, che si sposò in paese e le diede due nipotini. Ma il destino è sempre in agguato e la dolce e sensibile “Mela”, colpita dalla  immatura morte di Peppe suo marito, non sopravvisse a tale perdita. “A maistra”, si rivelò, in quella funesta occasione, una roccia e, seppur tra tante lacrime e sofferenze, si comportò con grande dignità per poter essere una guida materna ai piccoli nipotini, rimasti orfani dei genitori. Circa un mese fa, l’ultima volta che parlai con lei, la trovai serena come sempre e pronta a fare la "volontà du Signuri" anche se avrebbe volentieri donato la propria vita per salvare quella di uno dei tanti giovani che muoiono purtroppo prematuramente. Lei al dolore si era ormai rassegnata, ma stava male al pensiero delle sofferenze altrui. Allora diveniva così dolce e materna, da farti sentire ancora un bambino bisognoso di protezione, e la sua mano ti regalava una carezza, mentre i suoi occhi si inumidivano. Ecco chi era “a maistra Giulia”. Una donna di immensa umanità, incapace di fare del male. La sua morte non ha fatto notizia perché esiste soltanto una cronaca nera e non c’è spazio in nessun giornale per gli esempi positivi. Ecco perché, cara Maistra Giulia, ho voluto ricordarti, con queste povere parole, che poco rendono le tue grandi qualità. Certo ti ricorderanno le persone alle quali tu hai voluto bene, ma sarebbe bello se anche gli altri che poco ti hanno conosciuto, imparassero qualcosa dalla tua lezione di vita.

FILIPPO TUCCI