Storia e "storie", usi, tradizioni, credenze, linguaggio di un micro-cosmo dell'entroterra calabrese. Blog ideato nel 2010 dal commendatore FILIPPO TUCCI.
sabato 4 giugno 2011
Messignadi tra fede e folklore
Messignadi tra fede e folklore negli anni sessanta
di Filippo Tucci
“Ce ne sono di santi al mio paese per cui si fanno feste, onori e spese!
Hanno tutti un lumino e ognuno ha un giorno di gloria, con il popolino
intorno”. Così il poeta Vincenzo Cardarelli.Si può convenire che la de-
scrizione calzava a pennello anche per Messignadi.C’erano santi e feste
per ogni occasione ed, ovviamente, ogni santo aveva i suoi devoti, ma
anche una sua peculiarità. Le statue di san Giuseppe, di santa Teresa, di
santa Filomena, della Madonna del Carmine,dell’Immacolata, di san
Vincenzo Ferreri, di sant’Antonio da Padova, di san Paolo,di san Michele
arcangelo, di san Nicola riempivano le nicchie ( a cona) poste all’interno
della chiesa parrocchiale.Occorre, però dire che i festeggiamenti non erano
tutti uguali : per alcuni santi solo una messa cantata nel giorno della ricor-
renza, per altri una “festa di chiesa” (con annessa processione) ed, infine
c’era festa grande (con banda, fiera, illuminazione, palco, “spari” , panegi-
rico,ecc.) per l’Immacolata, nel mese di maggio, e per san Vincenzo, nel
mese di giugno. Del patrono san Nicola, la cui statua troneggiava sull’altare
maggiore della chiesa, non si hanno notizie di feste, così come di san Michele.
Santa Filomena invece venne pensionata e la statua era finita nello scantinato
della bottega di “custureri” di mastro Vincenzo Laganà. Di sant’Antonio si
ricordano i pagnocchedi che le donne, devote del santo, distribuivano a tutti
dopo la rituale benedizione, mentre la festa di san Paolo era il terrore dei bam-
bini, perché arrivavano i cosiddetti sanpaulari, che tentavano di mettere al
collo dei piccoli dei viscidi serpenti, al fine di esorcizzarne la paura.
Poi c’erano le feste comandate. Il santo Natale, con il suo intramontabile
fascino, veniva celebrato con una novena mattutina all’alba, annunciata dal
suono delle zampogne (i ciaramedi). A Pasqua, invece, c’ra la sguta (gloria
calandu e sguta mangiando) e i carici che sostituivano il suono delle campane.
Il venerdì santo, in chiesa si evocava la Passione del Signore e al momento
del rito delle tenebre tutti si mettevano a battere i piedi per terra e con i pugni
picchiavano sulle panche o sulle porte della chiesa in modo così violento da
provocare seri danni. Non si contavano, alla fine, le sedie rotte e gli infissi
fuori uso, che il buon parroco doveva far riparare.
Il giorno del Corpus Domini, il paese si “vestiva a festa” per gli altarini :
drappi, coperte damaschinate in raso luccicante, ricche e colorate
tovaglie pendevano dai balconi e dalle finestre delle case. In ogni ”rruga” veniva
allestito un piccolo altare che avrebbe ospitato per qualche minuto il Santissimo.
Era una gara a chi faceva l’addobbo più bello e più ricco e, al passaggio della
processione, era un piovere di fiori e di petali di rose, al punto che le strade
del paese divenivano un tappeto fiorito.
Oltre ai santi di Messignadi, c’erano da onorare anche quelli dei paesi vicini :
l’Annunziata a Oppido, la Madonna delle Grazie a Tresilico, la Madonna del
Carmine e del Rosario a Varapodio, la Pastorella a Piminoro, la Madonna di
Lourdes a Molochio,ecc. per cui almeno una veloce affacciata era d’obbligo.
Capitolo a parte era quello dei pellegrinaggi, dove c’era una grande e convinta
partecipazione popolare. La stagione, per così dire, veniva aperta il 3 maggio
con il Crocefisso di Terranova, il 15 agosto c’era la Madonna dei Poveri a
Seminara e da qui in viaggio verso Acquaro,dove si arrivava a tarda sera, per
assistere alla calata” chi trocciola” di S.Rocco. Infine, dulcis in fundo, il top,
quello a Polsi il 2 settembre, per la Madonna della Montagna.
Il pellegrinaggio conservava ancora integro lo spirito originario medievale
per cui diveniva un rito di espiazione e di purificazione spirituale. Le mete
erano raggiunte rigorosamente a piedi e ciò comportava non solo fatica fisica,
ma anche il dover far fronte a tanti imprevisti, connessi alla variabilità del clima
o alla necessità di dover guadare qualche torrente in piena. La grande fede che
li faceva mettere in viaggio, insieme al fatto che dovevano assolvere a un “gutu”
per una grazia ricevuta o da ricevere, faceva superare ai pellegrini qualsiasi tipo
di difficoltà. I viaggi erano fatti in compagnia e le carovane erano composte da
nuclei familiari, amici e compari. Si suonava, si ballava, si cantava e si pregava.
In queste occasioni, anche a causa della forzata promiscuità, inevitabilmente si
allentavano i rigidi controlli, che vigevano in paese e allora le giovani ragazze ed
i giovani maschi potevano scambiarsi qualche parola e stabilire un rapporto diretto.
Quanti matrimoni si “ggiustavano” (ma a volte si”scumbenavano”) durante il per
corso! Così pure si chiudevano trattative di affari di vario genere e si creavano
nuovi comparati (“sangianni”) e spesso ci si pacificava tra vecchi nemici.
In ultima analisi, il pellegrinaggio, aldilà degli aspetti strettamente religiosi, dive-
niva un elemento importante anche sotto il profilo dei rapporti sociali.
Poi, agli inzi di settembre, si ricominciavano i lavori della terra e si pensava alla
vendemmia imminente e alla raccolta dei funghi , che le prime piogge avrebbero
fatto emergere dalla grassa e feconda terra d’Aspromonte…
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