venerdì 24 giugno 2011

I Grandi Vecchi...Frank & Jimmy


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I Grandi Vecchi...


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I Grandi Vecchi...


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Le Grandi Nonne...


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Le Grandi Nonne...


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I Grandi Vecchi...


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Soldati


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Soldati


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Soldati


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venerdì 17 giugno 2011

A tempo di twist...


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Pasqua Australiana


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Compagnia "Teatrale" messignadese...


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Mamme...


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Le grandi Nonne


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Il "Trio acrobatico"


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Festa dell' Immacolata


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venerdì 10 giugno 2011

La pioggia di sangue


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Una mattinata straordinaria

Storia  ed eventi messignadesi      
UN MISTERO LUNGO 121 ANNI – 2
Messignadi – cronaca (immaginaria) di una mattinata straordinaria
                                      di Filippo Tucci

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Sono poche le notizie di cui si dispone, relativamente ai fatti che accaddero la mattina di quel giovedì 15 maggio 1890 a Messignadi e dalla reazione della popolazione, catapultata, suo malgrado, in una vicenda fuori dal comune, quale è stato il fenomeno della “pioggia di
sangue”. E’ rimasta solo qualche notizia frammentaria, giunta oralmente fino ai giorni nostri e qualche ”leggenda”, che consente appena una approssimativa ricostruzione. Quando, alle prime luci dell’alba qualcuno, alla Serra, si accorse che il terreno era impregnato di un liquido rossastro, apparentemente sangue, diede l’allarme e ci fu un andirivieni generale. In quegli anni l’area attorno alla fiumara della Serra (fiume Jona) era densamente abitata da agricoltori e pastori che lì avevano la loro abitazione. Fu
sicuramente una reazione di incredulità, sconcerto e sgomento, e qualcuno si faceva il segno della croce gridando: “Miraculu, miraculu!” Si decise di mandare subito qualcuno in paese, a Messignadi, per avvertire dell’accaduto il parroco e la guardia comunale. Il messignadese don Antonino Schiava (don Ninu) guidava la parrocchia locale da 32 anni ed era oramai vecchio e stanco. Nella sua vita ne aveva viste e sentite di cotte e di crude, ma stentava a credere a ciò che, in maniera confusa e agitata, quel ragazzo gli stava dicendo: Accipreviti veniti, veniti, a ‘mmunti a serra è chjnu i sangu a tutti i vandi!” E don Nino: “ma chi nci fu nà guerra, si sciarriaru , ‘mmazzaru achidunu ? Il ragazzo tentava di spiegare: ”No, non ndavi morti, chjoviu sangu du celu e i genti dinnu ca esti nù miraculu”. Frattanto era arrivato anche la guardia comunale, mentre un capannello di persone si era formato nella piazzetta davanti alla chiesa. Il prete e la guardia, decisero di recarsi subito alla Serra, mentre il sacrestano sarebbe andato a Oppido ad avvertire il vescovo, il Sindaco De Zerbi e il maresciallo dei Regi Carabinieri. Giunti sul posto i due, furono attorniati da una marea di persone (intanto lì tutto il paese si era riversato lì) e non poterono che prendere atto che effettivamente una ampia zona era coperta da un liquido rossastro, la cui natura era ignota, ma che poteva anche essere sangue. Si adoperarono perché si placassero  gli animi, assicurando che stavano per arrivare da Oppido le “autorità”. Sul mezzogiorno giunsero il canonico Virdia, mandato dal vescovo mons. Curcio, il maresciallo dei Carabinieri e l’ufficiale sanitario del Comune. Ispezionarono l’area in lungo e in largo, presero appunti, interrogarono gli abitanti del posto e prelevarono dei campioni del liquido e delle zolle di terra. Non diedero, né erano in grado di farlo, spiegazioni o opinioni. Il canonico Virdia  raccomandò solo la preghiera, perché questa – di qualunque cosa si trattasse – era l’unica cosa che in quel momento si poteva fare. Poi andarono via tutti. Don Nino Schiava tornò a casa sua, il Canonico Virdia andò a redigere la sua relazione che consegnò al vescovo ed inviò all’ufficio Meteorologico di Moncalieri ed in Vaticano, l’ufficiale sanitario mandò reperti e relazione alla Scuola Superiore di Sanità di Roma ed il maresciallo relazionò a chi di competenza. La gente stazionò sul luogo per l’intera giornata  ed altrettanto accadde nei giorni successivi, fintantoché un acquazzone non ripulì completamente tutta l’area. Dopo circa un mese furono resi noti gli esiti delle analisi, che confermarono trattarsi di sangue animale, di uccelli verosimilmente, 
e fu data una versione dei fatti, secondo la quale sarebbe stata una forte tempesta la causa di quanto accaduto. L'ipotesi formulata è stata ritenuta poco credibile anche dai Messignadesi, ma tanto bastò alle autorità civili e religiose per archiviare il caso. Il vescovo, mons. Curcio, convocò in Episcopio don Antonino Schiava e, nel commentare l’esito delle analisi, specificò che il miracolo, per Santa Madre Chiesa, è considerato tale quando produce effetti positivi e documentabili, che nel caso specifico non erano riscontrabili. E se di miracolo non si tratta, tutto poteva essere, anche opera del Maligno, come ben ci insegnano le Sacre Scritture. Perciò era bene che i “buoni figlioli messignadesi” non ne parlassero più. Don Nino  convenne con il suo vescovo e chiuse l'incontro con un non convinto “Sia fatta a volontà du Signuri”. Da allora sono passati 121 anni, ma il mistero della “pioggia di sangue” continua ancora.

FILIPPO TUCCI

                                 Messignadineltempo.blogspot.com

L'uomo che sparò alla luna

Storia  ed eventi messignadesi
UN MISTERO LUNGO 121 ANNI - 3

Come era prevedibile, la “pioggia di sangue” fece nascere delle leggende, tramandate  fino a noi dai racconti degli “anziani”. Il testo che segue è la rielaborazione di un racconto riferito da Santo Condello, nato nel 1895, nipote del protagonista della storia.
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                          L’UOMO CHE SPARO’ ALLA LUNA
                           rielaborazione a cura di Filippo Tucci
      
La fiumara della Serra era un piccolo paradiso terrestre: la terra produceva ogni bendiddio. Frutta, verdure, ortaggi crescevano rigogliosi nelle angre, sulle sponde del torrente. Il pianoro sovrastante, alle pendici dell’Aspromonte, era il regno della pastorizia con mandrie di pecore e di capre, vaganti liberamente nei prati. Li c’erano le vigne con i palmenti per  fare il vino, mentre su in montagna, ‘nto chijanu i Puzzonaru , si piantavano le patate e si facevano le fosse per il carbone. Ogni  mattino c’era il latte fresco e le ricotte che venivano servite sulle felci. Le uova, i polli, i satizzi e i supprizzati non mancavano mai sulla buffetta ed anche al pane si provvedeva direttamente. C‘era una tale sovrabbondanza, che tutti i giorni i ragazzi andavano a vendere i prodotti della loro terra ai viandanti di passaggio sulla strada Oppido-Terranova o sulla strada Messignadi – Molochio. I soldi che si racimolavano, facevano molto comodo perché la famiglie erano grandi. Nulla di strano, quindi, se in quella zona risiedevano stabilmente molti agricoltori e pastori con le loro numerose famiglie. Santo, detto u commis, amava quel posto , dove era nato e vissuto, e non aveva mai pensato di trasferirsi in paese, dove andava solo la domenica per la Messa. Lì aveva tutto e non invidiava certo a chidi chi stavano ‘nto paisi. Di sicuro quel piccolo benessere di cui godeva, doveva sudarselo tutti i giorni, lavorando duro, lui e la sua famiglia, dall’alba al tramonto. A sera era tanta la stanchezza, che  al primo buio, finito di mangiare, tutti andavano a dormire. Il vecchio Santo dava l’ultima occhiata per accertarsi che tutto fosse in ordine, controllava che a scupetta (un vecchio refolo a bacchetta, residuo dell’esercito di re Franceschiello) fosse carica. Non lo preoccupavano gli eventuali intrusi o fujuti (in casa sua c’era sempre un piatto in più, per ospiti inattesi!) ma temeva che qualche lupo o qualche fajina potesse fare strage delle sue galline. Quella sera di mercoledì 14 maggio, tutto era quieto. Udiva chiaramente lo scorrere della fiumara, appena più sotto, ed in un cielo senza nubi, la luna al suo ultimo quarto, aveva cominciato il suo giro tra le stelle. Si sdraiò sul pagliericcio e si addormentò, anche se il suo sonno abitualmente non era molto profondo. Fu più tardi che si svegliò, sentendo i latrati dei cani. Santo si stiracchiò, si alzò , socchiuse la finestra e diede un'occhiata all’esterno. I cani correvano impazziti nel cortiletto davanti casa, abbaiando furiosamente. Uscì fuori, i cani gli vennero incontro quasi cercassero protezione. Era chiaro che erano allarmati e tremavano. Guardò in giro, niente di niente, regnava la calma più assoluta, ma in lontananza si udivano i latrati di altri cani. Fece una carezza al suo “bastardo”, gli ordinò: “Ora a cuccia!” e tornò a letto. Il silenzio durò solo pochi minuti, poi i cani cominciarono a guaire, quasi una una sorta di lamento. Santo resistette una mezz’oretta, poi si rialzò e, presa la scupetta, andò a fare un giro di perlustrazione attorno alla casa. Niente, non c’era anima viva. I cani intanto si erano placati, anche se continuavano in uno strano e continuo mugolio. Ritornò a letto. Aveva appena socchiuso gli occhi, quando il concerto dei cani ricominciò con maggiore virulenza. A questo punto il buon Santo, perso il residuo di pazienza, uscì all’aperto gridando: “Briganti o diavulu chi ssì, nesci fora se ndai coraggio!”. Non si mosse foglia. I cani, ora se ne rese conto, abbaiavano alla luna, la testa rivolta in alto, saltando in aria, quasi volessero raggiungerla e  azzannarla. Santo, al colmo dell’esasperazione, urlò  rivolto alla luna: “Ah si, è curpa a tua?, e allura tè!” e premette rabbiosamente il grilletto della scopetta, puntata verso il cielo. Al rumore dello sparo, come per incanto, i cani tornarono mogi e tranquilli. Ora poteva tornare a dormire, anche se l’alba era ormai vicina. Non dormì per molto, però. Nel sonno percepiva una voce “Santu, Santu risbigghjiativi, calura mia, veniti e viditi chi succediu!”, mentre una mano lo scuoteva per svegliarlo. Era la moglie, attorniata dai figli, già svegli.“Sbertu, sbertu, Santu levativi e nesciti fora!), continuava la moglie. Il povero Santo aprì a fatica gli occhi, si tirò su dal giaciglio e usci fuori. Era ancora mezzo intontito e all’inizio non riuscì a distinguere bene, poi sgranò gli occhi e notò delle chiazze rosse per terra, sul tetto e sulle foglie degli alberi. Guardò in fondo verso la fiumara e, poi, verso la Scapola: era tutto pieno di questo liquido rosso. Provò a bagnare un dito, lo portò alla bocca, poi disse semplicemente: ”Esti sangu, sangu da luna!”. Poi si accasciò su una pietra, con la testa fra le mani, cereo in volto e pronunciò le ultime parole della sua vita : “Chjiamati i Carbineri, fui jeu chi sparai, stanotti sparai a luna”. Dopodiché si ammutolì e non disse più una parola, per il resto della sua vita.

FILIPPO TUCCI



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sabato 4 giugno 2011

Scene da un matrimonio


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Messignadesi on the road...


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Bambini nel tempo


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Bambini...nel tempo


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Santi di Messignadi


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Messignadi tra fede e folklore

Messignadi tra fede e folklore negli anni sessanta
di Filippo Tucci

Ce ne sono di santi al mio paese per cui si fanno feste, onori e spese! Hanno tutti un lumino e ognuno ha un giorno di gloria, con il popolino intorno”. Così il poeta Vincenzo Cardarelli .Si può convenire che la descrizione calzava a pennello anche per Messignadi. C’erano santi e feste per ogni occasione ed, ovviamente, ogni santo aveva i suoi devoti, ma anche una sua peculiarità. Le statue di San Giuseppe, di Santa Teresa, di Santa Filomena, della Madonna del Carmine, dell’Immacolata, di San Vincenzo Ferreri, di Sant’Antonio da Padova, di San Paolo, di San Michele Arcangelo, di San Nicola riempivano le nicchie (a cona) poste all’interno della chiesa parrocchiale. Occorre, però dire che i festeggiamenti non erano tutti uguali: per alcuni santi solo una messa cantata nel giorno della ricorrenza, per altri una “festa di chiesa” (con annessa processione) ed, infine c'era festa grande (con banda, fiera, illuminazione, palco, “spari” , panegirico, ecc.) per l’Immacolata, nel mese di maggio, e per San Vincenzo, nel mese di giugno. Del patrono San Nicola, la cui statua troneggiava sull’altare maggiore della chiesa, non si hanno notizie di feste, così come di San Michele. Santa Filomena invece venne pensionata e la statua era finita nello scantinato della bottega di “custureri” di mastro Vincenzo Laganà. Di Sant’Antonio si ricordano i pagnocchedi che le donne, devote del santo, distribuivano a tutti dopo la rituale benedizione, mentre la festa di San Paolo era il terrore dei bambini, perché arrivavano i cosiddetti sanpaulari, che tentavano di mettere al collo dei piccoli dei viscidi serpenti, al fine di esorcizzarne la paura. Poi c’erano le feste comandate. Il santo Natale, con il suo intramontabile fascino, veniva celebrato con una novena mattutina all’alba, annunciata dal suono delle zampogne (i ciaramedi). A Pasqua, invece, c’era la sguta (gloria calandu e sguta mangiando) e carici che sostituivano il suono delle campane. Il venerdì santo, in chiesa si evocava la Passione del Signore e al momento del rito delle tenebre tutti si mettevano a battere i piedi per terra e con i pugni picchiavano sulle panche o sulle porte della chiesa in modo così violento da provocare seri danni. Non si contavano, alla fine, le sedie rotte e gli infissi fuori uso, che il buon parroco doveva far riparare. Il giorno del Corpus Domini, il paese si “vestiva a festa” per gli altarini : drappi, coperte damaschinate in raso luccicante, ricche e colorate tovaglie pendevano dai balconi e dalle finestre delle case. In ogni ”rruga veniva allestito un piccolo altare che avrebbe ospitato per qualche minuto il Santissimo. Era una gara a chi faceva l’addobbo più bello e più ricco e, al passaggio della processione, era un piovere di fiori e di petali di rose, al punto che le strade del paese divenivano un tappeto fiorito. Oltre ai santi di Messignadi, c’erano da onorare anche quelli dei paesi vicini: l’Annunziata a Oppido, la Madonna delle Grazie a Tresilico, la Madonna del Carmine e del Rosario a Varapodio, la Pastorella a Piminoro, la Madonna di Lourdes a Molochio, ecc. per cui almeno una veloce affacciata era d’obbligo. Capitolo a parte era quello dei pellegrinaggi, dove c’era una grande e convinta partecipazione popolare. La stagione, per così dire, veniva aperta il 3 maggio con il Crocefisso di Terranova, il 15 agosto c’era la Madonna dei Poveri a Seminara e da qui in viaggio verso Acquaro, dove si arrivava a tarda sera, per assistere alla calata ”chi trocciola” di San Rocco. Infine, dulcis in fundo, il top, quello a Polsi il 2 settembre, per la Madonna della Montagna. Il pellegrinaggio conservava ancora integro lo spirito originario medievale per cui diveniva un rito di espiazione e di purificazione spirituale. Le mete erano raggiunte rigorosamente a piedi e ciò comportava non solo fatica fisica, ma anche il dover far fronte a tanti imprevisti, connessi alla variabilità del clima o alla necessità di dover guadare qualche torrente in piena. La grande fede che li faceva mettere in viaggio, insieme al fatto che dovevano assolvere a un “gutu”per una grazia ricevuta o da ricevere, faceva superare ai pellegrini qualsiasi  tipo di difficoltà. I viaggi erano fatti in compagnia e le carovane erano composte da nuclei familiari, amici e compari. Si suonava, si ballava, si cantava e si pregava. In queste occasioni, anche a causa della  forzata promiscuità, inevitabilmente si allentavano i rigidi controlli, che vigevano in paese e allora le giovani ragazze ed i giovani maschi potevano scambiarsi qualche parola e stabilire un rapporto diretto. Quanti matrimoni si “ggiustavano” (ma a volte si”scumbenavano”) durante il percorso! Così pure si chiudevano trattative di affari di vario genere e si creavano nuovi comparati (“sangianni”) e spesso ci si pacificava tra vecchi nemici. In ultima analisi, il pellegrinaggio, aldilà degli aspetti strettamente religiosi, diveniva un elemento importante anche sotto il profilo dei rapporti sociali. Poi, agli inizi di settembre, si ricominciavano i lavori della terra e si pensava alla vendemmia imminente e alla raccolta dei funghi , che le prime piogge avrebbero fatto emergere dalla grassa e feconda terra d’Aspromonte…

FILIPPO TUCCI