Storia ed eventi messignadesi
UN MISTERO LUNGO 121 ANNI - 3
Come era prevedibile, la “pioggia di sangue” fece nascere delle leggende, tramandate fino a noi dai racconti degli “anziani”. Il testo che segue è la rielaborazione di un racconto riferito da Santo Condello, nato nel 1895, nipote del protagonista della storia.
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L’UOMO CHE SPARO’ ALLA LUNA
rielaborazione a cura di Filippo Tucci
La fiumara della Serra era un piccolo paradiso terrestre: la terra produceva ogni bendiddio. Frutta, verdure, ortaggi crescevano rigogliosi nelle angre, sulle sponde del torrente. Il pianoro sovrastante, alle pendici dell’Aspromonte, era il regno della pastorizia con mandrie di pecore e di capre, vaganti liberamente nei prati. Li c’erano le vigne con i palmenti per fare il vino, mentre su in montagna, ‘nto chijanu i Puzzonaru , si piantavano le patate e si facevano le fosse per il carbone. Ogni mattino c’era il latte fresco e le ricotte che venivano servite sulle felci. Le uova, i polli, i satizzi e i supprizzati non mancavano mai sulla buffetta ed anche al pane si provvedeva direttamente. C‘era una tale sovrabbondanza, che tutti i giorni i ragazzi andavano a vendere i prodotti della loro terra ai viandanti di passaggio sulla strada Oppido-Terranova o sulla strada Messignadi – Molochio. I soldi che si racimolavano, facevano molto comodo perché la famiglie erano grandi. Nulla di strano, quindi, se in quella zona risiedevano stabilmente molti agricoltori e pastori con le loro numerose famiglie. Santo, detto u commis, amava quel posto , dove era nato e vissuto, e non aveva mai pensato di trasferirsi in paese, dove andava solo la domenica per la Messa. Lì aveva tutto e non invidiava certo a chidi chi stavano ‘nto paisi. Di sicuro quel piccolo benessere di cui godeva, doveva sudarselo tutti i giorni, lavorando duro, lui e la sua famiglia, dall’alba al tramonto. A sera era tanta la stanchezza, che al primo buio, finito di mangiare, tutti andavano a dormire. Il vecchio Santo dava l’ultima occhiata per accertarsi che tutto fosse in ordine, controllava che a scupetta (un vecchio refolo a bacchetta, residuo dell’esercito di re Franceschiello) fosse carica. Non lo preoccupavano gli eventuali intrusi o fujuti (in casa sua c’era sempre un piatto in più, per ospiti inattesi!) ma temeva che qualche lupo o qualche fajina potesse fare strage delle sue galline. Quella sera di mercoledì 14 maggio, tutto era quieto. Udiva chiaramente lo scorrere della fiumara, appena più sotto, ed in un cielo senza nubi, la luna al suo ultimo quarto, aveva cominciato il suo giro tra le stelle. Si sdraiò sul pagliericcio e si addormentò, anche se il suo sonno abitualmente non era molto profondo. Fu più tardi che si svegliò, sentendo i latrati dei cani. Santo si stiracchiò, si alzò , socchiuse la finestra e diede un'occhiata all’esterno. I cani correvano impazziti nel cortiletto davanti casa, abbaiando furiosamente. Uscì fuori, i cani gli vennero incontro quasi cercassero protezione. Era chiaro che erano allarmati e tremavano. Guardò in giro, niente di niente, regnava la calma più assoluta, ma in lontananza si udivano i latrati di altri cani. Fece una carezza al suo “bastardo”, gli ordinò: “Ora a cuccia!” e tornò a letto. Il silenzio durò solo pochi minuti, poi i cani cominciarono a guaire, quasi una una sorta di lamento. Santo resistette una mezz’oretta, poi si rialzò e, presa la scupetta, andò a fare un giro di perlustrazione attorno alla casa. Niente, non c’era anima viva. I cani intanto si erano placati, anche se continuavano in uno strano e continuo mugolio. Ritornò a letto. Aveva appena socchiuso gli occhi, quando il concerto dei cani ricominciò con maggiore virulenza. A questo punto il buon Santo, perso il residuo di pazienza, uscì all’aperto gridando: “Briganti o diavulu chi ssì, nesci fora se ndai coraggio!”. Non si mosse foglia. I cani, ora se ne rese conto, abbaiavano alla luna, la testa rivolta in alto, saltando in aria, quasi volessero raggiungerla e azzannarla. Santo, al colmo dell’esasperazione, urlò rivolto alla luna: “Ah si, è curpa a tua?, e allura tè!” e premette rabbiosamente il grilletto della scopetta, puntata verso il cielo. Al rumore dello sparo, come per incanto, i cani tornarono mogi e tranquilli. Ora poteva tornare a dormire, anche se l’alba era ormai vicina. Non dormì per molto, però. Nel sonno percepiva una voce “Santu, Santu risbigghjiativi, calura mia, veniti e viditi chi succediu!”, mentre una mano lo scuoteva per svegliarlo. Era la moglie, attorniata dai figli, già svegli.“Sbertu, sbertu, Santu levativi e nesciti fora!), continuava la moglie. Il povero Santo aprì a fatica gli occhi, si tirò su dal giaciglio e usci fuori. Era ancora mezzo intontito e all’inizio non riuscì a distinguere bene, poi sgranò gli occhi e notò delle chiazze rosse per terra, sul tetto e sulle foglie degli alberi. Guardò in fondo verso la fiumara e, poi, verso la Scapola: era tutto pieno di questo liquido rosso. Provò a bagnare un dito, lo portò alla bocca, poi disse semplicemente: ”Esti sangu, sangu da luna!”. Poi si accasciò su una pietra, con la testa fra le mani, cereo in volto e pronunciò le ultime parole della sua vita : “Chjiamati i Carbineri, fui jeu chi sparai, stanotti sparai a luna”. Dopodiché si ammutolì e non disse più una parola, per il resto della sua vita.
FILIPPO TUCCI
Messignadineltempo.blogspot.com
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