La “botta scura” fu talmente potente da farmi sbalzare dal lettino. Era l’alba di domenica 19 giugno 1950, l’alba della festa. Le campane della chiesa suonavano a distesa e sembrava non volessero più smettere; da lontano provenivano i suoni della “ciaramide” di Cenzaredu l’Orbu, che aveva iniziato a fare il giro del paese. Seguivano, subito dopo, i “ì tamburinari” e la “banda Pilusa”, con il suono stridulo della “pipita”. Non stavo più nella pelle, non volevo perdermi neanche un attimo della festa tanto attesa. La via Roma, dove allora abitavamo, era già piena di gente, che curiosava attorno alle bancarelle, dove si poteva trovare di tutto. La strada principale del paese (dal Calvario, alla Figurella) era tutta un mercato all’aperto, con gli imbonitori che decantavano a squarciagola la bontà della loro mercanzia. In uno spiazzo recintato, riservato agli animali, si trovavano “scecchi”, maiali, pecore, capre, galline e qualche agnellino, al cui collo era stato attaccato un nastrino di colore rosso. C’era anche il venditore di ghiaccio (in realtà era neve, interrata in inverno e riportata alla luce per l’occasione), utilissimo, a giugno oramai inoltrato, per rinfrescare le bibite. Mi soffermavo a guardare le gare di tirassegno, nelle quali in tanti si cimentavamo per avere la palma di miglior tiratore o per mettersi in evidenza con la avvenente signorina, che caricava le carabine. Qualcuno, non molti però, tentava di dare l’assalto al palo della cuccagna, reso viscido da un impasto oleoso, in cima al quale c’era appeso ogni bendiddio (“pizzotte” di formaggio, salumi, bottiglie di vino, ecc.). Era molto buffo vedere gli sforzi che facevano per arrampicarsi e come miseramente cadevano, quando le forze venivano a mancare. Solo in serata, quando l’effetto oleoso era ormai esaurito, Nino l’Africano riuscì portarsi a casa tutta quella roba. Non mancavano, ovviamente, i giocattoli, soprattutto piccoli tamburi, trombe, armoniche, ecc. Armati di questi strumenti in miniatura, i ragazzi scimmiottavano i suonatori e ad essi si accodavano facendo il giro del paese. All’improvviso un varco si aprì, tra la folla, per fare largo a uno strano tipo, dal vestito variopinto e con un cappellino piumato, che avanzava a piedi nudi suonando una armonica con la bocca, il tamburo con le mani, mentre con il movimento delle braccia ritmava la grancassa, che portava dietro la schiena... Si chiamava, o forse lo avevano soprannominato, “Nicoddemi” e veniva da Napoli. I bambini lo seguivano estasiati, anche se il suo incedere era lento perché non disdegnava di “onorare” le persone che generosamente gli offrivano un bicchiere di buon vino. Tra l’altro, ad ogni giro che faceva nel paese, cambiava l’abito (sempre, però, coloratissimo) e alternava gli strumenti musicali. Questo personaggio colpì tanto la fantasia popolare, al punto che ancor oggi, se qualche ragazza si fa vedere nello stesso giorno con abiti diversi, si dice “Faci centu viduti, peju i Nicoddemi”. Attorno alle dieci del mattino, fece il suo ingresso la banda che sfilò lungo la via centrale, tra gli applausi generali. Erano tutti militari della Banda del 5° Corpo d’Armata, di stanza a Napoli, imponenti nelle loro bellissime uniformi. Procedevano tra due ali di folla, preceduti da due Carabinieri a cavallo, eseguendo una marcia militare... Li seguiva il direttore della banda, accompagnato da Giacomo De Gori, con in bocca il suo perenne mezzo toscano spento, che quell’anno capeggiava il Comitato feste. Dietro di loro un codazzo di bambini festanti. I musicisti si schierarono sullo slargo antistante la Chiesa ed eseguirono un pezzo del loro repertorio. Poi, ad un cenno del capobanda, l’esibizione ebbe termine e i militari si ritirarono verso la baracca delle scuole, dove la maggior parte di loro erano in qualche modo alloggiati, mentre il maestro ed i capibanda erano ospitati da privati. Subito dopo, il suono delle campane avvertiva che era l’ora della Messa e uno sparo ne segnò l’inizio. La chiesa era stracolma e tante persone dovettero seguire dall’esterno la celebrazione. Si udivano solo i canti e un lungo applauso che segnò la fine del panegirico. Alla uscita dalla Messa, gli uomini, che in chiesa stavano dietro, rigorosamente separati dalle donne che erano davanti, si schierarono ai bordi della strada lasciando uno spazio ristretto, dove le povere donne dovevano passare sotto lo sguardo dei tanti curiosi. Le giovani camminavano fiere ed altezzose con gli occhi fissi in avanti e se qualcuna fra loro, per scelta o casualmente attirava l’attenzione dei giovani maschi, non mancava il classico commento “nnacati cà ti mandu”. Infine la banda di Varapodio (che più tardi avrebbe accompagnato il Santo nella processione) si avviò suonando verso la piazza e questo era il segnale che era giunta l’ora del pranzo. Era consuetudine di tutte le famiglie messignadesi avere degli ospiti per l’occasione, molti erano parenti, amici o compari dei paesi vicini, ma si invitava anche qualche bandista o qualche forestiero. A casa mia, quel giorno, c’erano ospiti un nostro cugino che abitava a Delianova ed un compare di Varapodio, con relative mogli e figli, e un bandista. Questo signore, lo ricordo perfettamente, era simpaticissimo e gioviale oltre che buon gustaio e buon bevitore. Doveva essere un gran signore perché portò dei dolci, e a me un cavalluccio in cartapesta. Al momento della processione mi piazzai in posizione strategica, perché l’uscita del Santo, e il vederlo tra la “sua” gente, era il momento più emozionante, del quale ciascuno dei presenti avrebbe conservato il ricordo per il resto della propria vita. Le voci, il brusio, i canti, la banda, gli “spari”, gli applausi accompagnati dal grido “Viva San Vincenzo”, mentre la statua si staglia nel portone della chiesa, non sono folklore, ma segno e sostanza di una devozione secolare. E mentre avanzano le prime ombre della sera, Messignadi si veste di luce. Si accendono mille lampadine negli archi che sovrastano le strade, ogni bancarella viene illuminata a giorno ed il palco, eretto nella piazza delle Chiesa Vecchia, è sfavillante di luci e di colori. Più tardi il direttore della banda alzerà la sua bacchetta ed avrà così inizio il concerto clou della serata. I tanti intenditori presenti (molti vengono da fuori) seguono in religioso silenzio l’esecuzione delle opere liriche. Mastro Vincenzo, “u cadderaru”, accompagna le sinfonie con il ritmo della sua testa ed esplode in un applauso trascinante, quando c’è l’attacco della marcia Trionfale dell’Aida. In chiusura della serata il popolo reclama a gran voce il Canzoniere, che viene puntualmente eseguito, mentre dalla piazza, si alza ad ogni canzone, un coro di voci che accompagna le arie dei motivi più conosciuti. L’apoteosi la si raggiunge con l’esecuzione di “O sole mio”, un classico della canzone napoletana... Tra gli applausi scroscianti il maestro si gira verso la folla e saluta militarmente, mentre i suoi bandisti sono sull’attenti. La gente invoca "bis, bis , bis" ed il maestro fa eseguire la "Calabresella", in omaggio al paese e per la gioia dei presenti. Poi Giacomo De Gori sale sul palco e consegna al direttore, come segno di gratitudine e a ricordo della serata , un prezioso orologio d'oro. La banda, infine, scende dal palco, si apre un varco tra la folla e si allontana. In quel mentre cominciano i fuochi d’artificio che quest’anno sono veramente spettacolari. Il fuochista è conosciuto come “U bruttu i Sant'Anna” ed è talmente bravo che quando dà il via alla “cascia mpernali” la gente, si fa prendere dal panico e comincia a correre per ogni dove, inseguita dalle bombe che sembrano esplodere da ogni parte. Poi la classica “botta scura” chiude i festeggiamenti e tutti tornano a casa felici di essere stati protagonisti di un evento e con il fermo proposito di fare una festa ancor più grande, il prossimo anno. Se la festa per i grandi finisce la notte di domenica, per i ragazzi c’è un appendice il giorno dopo, quando si va nel fondo Romeo per raccogliere le “stillate” (i resti inesplosi dei fuochi artificiali) con le quali tentare di imitare le gesta del fuochista. Gioco sicuramente pericoloso e se mai nessun incidente si è verificato, lo si deve a San Vincenzo che alla sua festa ci tiene davvero…
FILIPPO TUCCI
doveva dirmelo ke valeva la pensa leggerlo nn semplicemente il xkè ancora non l'avessi fatto...nn usi la modestia cn me...davvero complimenti...davvero belle le feste a quell'epoca
RispondiElimina...giusy scarcella
Non so se i messignadesi saranno in grado di poter comprendere la singolarità di avere un santo patrono così importante in Cielo come lo fu in terra. Tuttavia posso dire questo: Dio dona la sapienza agli umili. E di umili a Messignadi ve ne sono, sebbene non molti: umili di cuore intendo e non di estrazione. Costoro sarebbero sufficienti a dimostrare che Messignadi, sin dalle origini nobile, non ha nulla da invidiare ai paesi vicini che nel tempo la depredarono e ne infangarono il nome certamente per invidia. Non a caso san Vincenzo ha voluto dare un segno alla nostra gente nei secoli, sorgendo intatto da quelle rovine antiche del convento domenicano. Così, infatti, auspico che debba sorgere Messignadi, come san Vincenzo Ferreri: intatta nella sua dignità e nobiltà storica.
RispondiEliminaEra il 1867, quando i messignadesi, nel tentativo di scrollarsi dalla sudditanza a Oppido, vennero bollati con un etichetta assai vergognosa dall'allora sottointendente da Palmi e poi da Reggio, inviati dal governo a valutare se sussistevano le condizioni per cui Messignadi poteva divenire comune autonomo. I "buoni motivi" erano questi (dai "Quaderni mamertini" n°9 pag.12, di R. Liberti):" ... all'infuori di cinque o sei piccoli proprietari e così detti mezzi galantuomini che sanno sufficientemente leggere e scrivere il resto degli individui non è che un aggregato di volgare gentame esclusivamente addetto alle colture delle campagne, idiota, e fuori di ogni civilizzazione e se pur tra questa massa si trovassero taluni scribenti non si può certamente dire che costoro sappiano leggere e scrivere, ma semplicemente imprimere i caratteri dell'alfabeto".
Messignadi non è questo e lo sanno bene i messignadesi. Ma il torpore che li sovrasta è grande. Svegliati Messignadi, il tempo del tuo sonno deve finire. Quale migliore riscatto può venire dal seguire le parole di san Vincenzo? "Timete Deum et date Illi onorem". Se faremo questo tutto il resto sarà dato in sovrappiù.
Viva san Vincenzo, viva Messignadi.
concordo pienamente! filippo Tucci
RispondiEliminaGrazie prof. Filippo Tucci per averci dato una bellissima e profonda pagina di ricordi di quel lontano 1950 che ha avuto anche in mio Pafre, Vincenzo Riganò, parte attiva a quei festeghiamenti. W San Vincenzo
RispondiEliminaMi scuso e correggo la lata di partecipazione attiva da parte di mio padre, Vincenzo Riganò, non dal 1950 ma dal 1955. Sempre W San Vincenzo e il popolo di Messignadi.
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